Il podcast è qua. La foto è di Porapak Apichodilok from Pexels
«Tranquillo, domani è la prima cosa che faccio».
«Se ho avvisato il cliente? Ma naturalmente!».
«Eccerto che ho controllato i dati! Almeno tre volte, li ho controllati!»
Ah, che fastidio quando un collega ci racconta frottole. Eppure, anche se le spara false come un Van Gogh in cucina, le sue bugie non saranno mai dannose come quelle che ci raccontiamo da soli.
Bentrovate e bentrovati al dodicesimo episodio di Non ce la posso fare.
«La nostra capacità di autoinganno è molto maggiore di quanto immaginiamo», scrive Ian Leslie in Bugiardi nati. Perché non possiamo vivere senza mentire.
Leslie racconta le ricerche svolte da Leon Festinger nella metà del secolo scorso. In uno dei suoi esperimenti, Festinger chiese ad alcune persone di fare, per un’ora, un lavoro particolarmente noioso. Poi le pagò per mentire. Diede a ciascuno qualche soldo per raccontare ad altri che quel lavoro che gli aveva fatto svolgere per un’ora, quel lavoro particolarmente noioso, fosse in realtà divertentissimo.
A un gruppo di persone, per mentire, diede un dollaro, a un altro gruppo ne diede venti. Quale gruppo avrà mentito meglio? Quello che è stato più retribuito, no? Chi ha ricevuto più soldi sarà stato certamente più motivato a fare bene il compito assegnatoli, cioè mentire.
Invece no. Hanno mentito meglio quelli nel gruppo che ha ricevuto un solo dollaro. Non se ne deduca che per fare lavorare bene la gente, bisogna pagarla meno. Qui la faccenda è un po’ particolare, perché ci va di mezzo la nostra coscienza, vengono tirati in ballo i nostri valori.
Festinger, il ricercatore che ha avuto l’idea di fare l’esperimento, spiega la faccenda così: tutti ci consideriamo delle brave persone, e le brave persone non dicono bugie. Beh, però se la paga è buona – e venti dollari a metà ‘900 non erano male – va bene la morale, va bene l’etica, va bene l’essere brave persone e però, dai una piccola bugia la posso pur dire? In fondo non faccio niente di male.
Ma se la paga è irrisoria, un solo dollaro, non riesco a dirmi ‘va bè, dai, ne vale la pena’. Fatico a farmi una ragione del mentire. Ecco che ho bisogno di convincermi che, in fondo, non è poi così vero che ho mentito. A pensarci bene proprio tanto tanto noioso, quel lavoro mica lo era.
E se mi convinco che, in fondo, quel lavoro non era tanto male, beh, allora sarò ancora più convincente nel dirlo agli altri. Dunque, è così che Festinger spiega come mai, quelli che avevano ricevuto un solo dollaro per mentire, hanno raccontato frottole più efficaci di quelli che ne hanno ricevuto venti.
Perché si erano autoingannati: si erano convinti di non stare dicendo una grande menzogna.
Il libro di Leslie, Bugiardi nati, che in Italia ha pubblicato Bollati Boringhieri nel 2014, è denso di spunti, sul tema della menzogna. A partire dal farci notare il nostro atteggiamento a dir poco schizofrenico. Da bambini ci viene insegnato che dire la verità è bene, dire le bugie è male. Ma se zio Mario ci fa un regalo che troviamo orribile, guai a dirgli la verità: bisogna sorridere e dire «grazie zio Mario, davvero bellissimo!».
Gli stessi individui – vale a dire i genitori – che ci hanno spiegato con enfasi quanto sia sbagliato dire una bugia, apprezzano che, di fronte allo zio Mario, sappiamo mentire con le parole e con il linguaggio del corpo.
Grazie che poi cresciamo confusi.
A me, però ha colpito soprattutto la faccenda dell’autoinganno, quella dei mentitori di Festinger. Perché penso che sia una cosa che, sul lavoro, capita un sacco. E capita un sacco perché così come le persone coinvolte da Festinger non mentivano a cuor leggero, neanche il lavoro è una roba che facciamo così tanto per fare, giusto per combattere la noia: ci investiamo tempo, risorse, energie, speranze, ambizioni. Il lavoro comporta sacrifici.
E così, quando sul lavoro qualcosa va storto ci mettiamo un bel po’, prima di considerare che, forse, il problema sta in ciò che abbiamo fatto noi. Prima facciamo una serie di altre cose: innanzitutto, neghiamo l’evidenza; poi, quando non riusciamo più a nascondere il problema, cerchiamo di minimizzarlo; infine inventiamo scuse e, infine, ricorriamo al più classico dei classici: diamo la colpa agli altri.
E non facciamo questo perché siamo stupidi, malvagi o chissà che cosa. Lo facciamo perché siamo umani. Ci raccontiamo delle frottole, ci inganniamo da soli, perché ci sembra la cosa meno dolorosa da fare.
Insomma, la famosa frase sentita ogni tanto in qualche film d’azione – e anche nella vita reale – ‘io mi fido solo di me stesso’, va presa un po’ con le molle. Perché, alle volte, se c’è qualcuno di cui non ci si può fidare siamo proprio noi stessi.
Come se ne esce?
Forse dando un po’ di fiducia in più ai colleghi. Anche a quello che una volta – mentre ti toccava la spalla sporcandoti il vestito di marrone – ti ha detto «no, assolutamente no, non sono stato io a prendere la tua cioccolata dal frigo».
Non ce la posso fare, la serie dedicata alle piccole e grandi cose che al lavoro succedono e ti stroncano, volge al termine. Ma resta ancora una questione da sciogliere: sul lavoro, ce la posso fare a essere felice. Faccenda tosta, che richiede un po’ di tempo per essere approfondita e, decisamente, un valido aiuto.
Alla prossima.
No Comments