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Il capo se ne va

Photo by Dương Nhân from Pexels

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Tra le notizie del momento vi è quella di un leader politico che si fa da parte. Notizia di cui qui non si parla bensì si coglie lo spunto per affrontare una questione cruciale non solo per la politica, ma anche per le organizzazioni e il mondo delle imprese: la successione.

Il professor Luca Amovilli, esperto di teorie delle organizzazioni, diceva che «la riflessione sulla successione, in Italia non esiste». Giudizio forse estremo, poiché in diverse aziende – nelle grandi di sicuro, ma anche in tante a conduzione famigliare – i piani di successione esistono. Ma secondo Amovilli, tanto nelle aziende quanto nelle associazioni, i leader spendono ben poco tempo a pensare a chi verrà dopo di loro.

Questo non significa che non si occupino della formazione e della crescita di chi gli sta intorno, ma è raro che ipotizzino di essere sostituiti. Gli spostamenti dei leader, quando avvengono, sono di solito dovuti al desiderio degli stessi di far carriera (o, nei casi negativi, a dissidi con la proprietà dell’azienda).

Qualche anno fa è uscito un libro dal titolo Leadership e successione: un’avvincente storia italiana, scritto da Romano Bonfiglioli. Non è un testo di tipo accademico o scientifico, ma un racconto, in buona parte autobiografico (l’autore è fondatore di una società di consulenza aziendale) che offre spunti interessanti, anche se la successione di cui si parla, è soprattutto quella interna alla famiglia.

Il pensiero corre però a un grande classico, Leadership situazionale, di Kenneth Blanchard e Paul Harsey. Usando un diagramma celeberrimo, i due autori dividono gli stili di leadership in quattro classi, a seconda di quanto impegno il leader mette lungo due dimensioni: l’impegno verso il compito e quello verso i collaboratori.

Nel primo stile presentato, il leader dà le dritte: dice ai collaboratori cosa devono fare e via così. È una specie di dittatore, che può sembrare una parola grossa ma, in una fase iniziale, mentre il gruppo si costituisce, ci può stare. Nel secondo, continua a essere orientato al compito, ma si occupa molto delle relazioni tra i suoi collaboratori: non pensa solo al risultato ma vuol anche far crescere il gruppo, uno stile di leadership che ricorda il coach, l’allenatore.

Poi, dopo altro tempo, i collaboratori sono cresciuti al punto che non hanno più bisogno di sentirsi dire cosa devono fare: lo sanno già, sono diventati esperti. Il capo si concentra sulla tenuta del gruppo, stile che ricorda quello di un parroco che, all’oratorio, si preoccupa che le bambine e i bambini stiano bene insieme: se poi vengono fuori campioni di ping pong tanto meglio.

Infine, c’è il capo che non deve più dire alle persone né qual è il loro compito, né come devono lavorare insieme. I suoi collaboratori hanno imparato l’una e l’altra cosa. Il leader è esaurito, nel senso che ha esaurito il proprio compito. È bello, per un capo, essere esaurito, perché significa che ha fatto bene quello che doveva fare. C’è solo un dettaglio: quando un capo è esaurito, è ora che tolga il disturbo, che lasci il posto a un altro. È il momento della successione che, però, dev’essere preparata.

Chissà, dunque, che nel mondo della formazione non ci si appassioni sempre di più al tema della successione, che può essere affascinante, e non solo quando riguarda la storia di una famiglia raccontata da una bellissima serie televisiva.

 

 

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