Il video non ha ucciso le stelle della radio
di Nicola Grande
Il centrodestra ha scelto il proprio candidato a sindaco di Roma. No, non ho alcuna intenzione di scrivere di politica. Volevo solo riflettere sul fatto che chi, come me, non è di Roma si è chiesto chi fosse mai questo signore. Chi invece a Roma ci vive, lo conosce eccome. A quanto pare le radio locali a Roma godono di una salute del tutto sconosciuta nel resto d’Italia. Come i podcast nel resto del mondo (e forse anche a Roma).
I podcast esistono da diversi tempo (nel nostro piccolo, in SPELL, li realizziamo da tre anni), ma è solo da circa un anno che, in Italia, l’offerta è cresciuta enormemente.
Si va da quelli artigianali, letteralmente registrati con un microfono – talvolta quello delle cuffie – e un computer, a prodotti di alta qualità realizzati in studi professionali. Si passa da podcast in cui una singola persona esprime le proprie opinioni su vari argomenti, a prodotti giornalistici e documentari complessi e articolati, con dietro un sofisticato lavoro di regia e montaggio.
Certo, se il podcast è un mezzo che sta vivendo un momento fortunato, buona responsabilità è anche della pandemia, che ci ha costretti a muoverci di meno e a sperimentare nuovi strumenti comunicativi.
Nuovi?
La mia sensazione – e così giustifico il riferimento all’attualità che ho fatto in apertura – è che il podcast altro non sia che il figlio di un mezzo di comunicazione che ha più di un secolo di vita: la radio. Nata nel 1895, era stata data per morta nel 1979, quando The Buggles cantavano che il video aveva ucciso le stelle della radio. Stavano arrivando i primi videoclip e il futuro della radio si preannunciava funesto. Ma.
Nelle radio sono arrivate le webcam. E quindi la radio è anche video.
Non avrebbe senso guardare delle persone parlare ad un grosso microfono, con delle grosse cuffie in testa in uno spoglio studio radiofonico.
Eppure…
Eppure in questa contaminazione transmediale (!) l’audio senza il video (cioè la radio) sta benissimo, tant’è che ha pure figliato: certo, prima di tutto i podcast e poi social che si basano solo sull’uso della voce (il riferimento è certamente a Club House, nonché alle stanze audio di Twitter).
Dato per buono che la radio è come il rock’n’roll cantato da Neil Young – e cioè non morirà mai – ci possiamo chiedere se questa proliferazione di file audio e conversazioni online è destinata a crescere o finirà per sgonfiarsi un po’.
Ma quello che a me qui interessa è un’altra cosa: per chi lavora nella formazione e in particolare nella formazione tramite video – com’è il mio caso – l’”audio senza video” può essere di qualche utilità?
Cominciamo con il prendere atto che in passato non è stato così. Abbiamo saltato a piè pari la produzione di audio (non avevamo clienti interessati) e siamo passati subito a produrre video. Ma proprio questa esperienza qualcosa di utile ce l’ha insegnata, qualcosa che ci è utile nel mondo dell’audio.
Prima di tutto la consapevolezza che, come non basta prendere una bella videocamera e cominciare a girare, neppure basta comprare un buon microfono e mettersi a parlare. Occorre lavorare sulla sceneggiatura, sui tempi, sulle battute. Così come lo sfondo è importante, in un video, il tappeto musicale è cruciale, in un file audio. È vero, molti non vogliono musiche di sottofondo, nei podcast, scelta rispettabilissima che, però, non esime dal curare con grande attenzione i rumori (o l’assenza di rumori) su cui si svolge un dialogo o un monologo. Gli audio non tollerano buchi, non accettano esitazioni.
In merito alle differenze, la più evidente è forse quella dei tempi. Una cosa che raccontiamo spesso è che un video di formazione deve durare al massimo lo spazio tra una fermata e l’altra della metro, mentre un episodio podcast ha un respiro un po’ più ampio: può essere ascoltato nel rientrare a casa in macchina, o durante una passeggiata o una sessione di stiratura di camicie.
E con questo si intravede una caratteristica dell’audio: la flessibilità. Nella fruizione, certamente: si può ascoltare un podcast mentre si fanno altre cose – non intellettualmente impegnative – e questa è una bella sfida, per chi li realizza. Saper catturare l’attenzione di chi ascolta con il patto che, contrariamente al video, non si richiede l’attenzione totale.
Ma esiste anche la flessibilità nella sua produzione: chiedere alle persone di produrre un file vocale è spesso più semplice che chiedere un video, e questo apre molte opportunità nelle attività formative che tendono a coinvolgere, far partecipare, realizzare un prodotto in comune.
Senza dimenticare la parolaccia che ho tirato fuori più sopra: transmedialità.
Oramai nel nostro mondo si parla sempre più spesso di learning path, sentieri di sviluppo più fluidi rispetto a programmi rigidi: fluidità che è data certamente dalla possibilità per il fruitore di scegliersi il path di contenuti più adatto, ma anche per chi produce di proporre percorsi che vedono eventi sincroni (aula fisica, aule virtuali, eventi online, workshop) ed eventi asincroni (video, podcast, letture).
Insomma, la pandemia ha fatto i suoi (non pochi) danni, ma per chi ha voglia di rimescolarsi e esplorare nuovi strumenti e nuove ricette, i microfoni sono aperti.
On Air!
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