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Il leader umorista

«Caro Nicola, quando è stata l’ultima volta che ti sei fatto una gran bella risata?». Me lo chiede via mail Mark Rice Oxley, del quotidiano inglese The Guardian. «Te lo chiedo solo perché la vita è troppo importante per essere presa seriamente».

La mail di Mark rimanda a un articolo sullo stesso Guardian, con un titolo che potrei tradurre così: Devi ridere: perché il senso dell’umorismo aiuta, nei tempi scuri. L’articolo si apre con un esempio un po’ forte, ma decisamente chiaro.

Il giornalista parla di un uomo, amico di suo fratello, rimasto bloccato in un albergo durante un attacco terroristico. Nel chiuso del bagno dove si è rintanato, l’uomo manda questo messaggio al fratello del giornalista: “la situazione si sta facendo un po’ tesa, qui in albergo. C’è dello humour inglese disponibile?”. Inizia così una conversazione a colpi di brevi messaggi in cui i due hanno dato sfoggio di un umorismo sorprendente, viste le condizioni.

Poche ore dopo l’uomo bloccato nell’albergo viene tratto in salvo e confida all’amico di essere riuscito a sopportare quella situazione terribile, evitando il panico, anche grazie al senso dell’umorismo che, insieme, erano riusciti a tirare fuori.

Adoro il senso dell’umorismo inglese e cerco di praticarlo; quindi sono decisamente ammirato, ma anche un po’ perplesso. Stiamo comunque parlando di un attentato terroristico, sono morte decine di persone. Vagheggio che mi sarebbe piaciuto essere al suo posto e comportarmi allo stesso modo sfoggiando il mio sense of humor, ma lo faccio dal mio divano antiterrorista.

Potrei fare comunque battute sulla situazione? Mica tanto: un conto è quando una persona in difficoltà usa il senso dell’umorismo per affrontare al meglio quello che sta passando; tutt’altro discorse se io, che sono spettatore di una tragedia, ci scherzo sopra.

Ho la grazia di poter usare l’ironia e l’umorismo come strumenti di lavoro quotidiano, quindi so che funziona, ma l’articolo mi ha fatto espandere la riflessione sino a chiedermi: ma se il senso dell’umorismo può aiutare in condizioni disperate come quella di avere dei terroristi alla porta, non potrebbe essere uno strumento utile per un manager?

Trovo alcune risposte nel lavoro di Jennifer Aaker e Naomi Bagdonas. La prima è una psicologa comportamentale, che insegna alla Stanford University. Anche la seconda lavora nella stessa università, come lettrice, è un’esperta di strategie media e si diletta nella recitazione.

Aaker e Bagdonas, che hanno scritto il libro Humour Seriously, sostengono che avere senso dell’umorismo, sul posto di lavoro, equivalga ad avere un superpotere.

Che farsi una bella risata tiri su di morale, mi pare evidente. Ma forse c’è qualcosa di più. “Quando ridiamo insieme a qualcuno, prendiamo un cocktail di ormoni che rafforzano i nostri legami emotivi che non sarebbe possibile altrimenti”, dice Naomi Bagdonas.

Non solo: cercare il lato umoristico nelle cose che ci accadono è un esercizio di creatività come ce ne sono pochi. Il senso dell’umorismo ci aiuta inoltre a riflettere sui nostri errori. Contribuisce a sbloccare relazioni tese, a sdrammatizzare situazioni pressanti.

E fin qui trovo conferma a ciò che faccio per vivere.

Ma trasformarlo in uno strumento di gestione dei collaboratori? Come può, un leader, usare lo humor per aumentare l’efficacia del proprio team? La cosa non è proprio semplicissima. Mica un capo può andare dai suoi collaboratori a dire “Ehi, mi raccomando: non prendete le cose che fate troppo sul serio!”.

Però l’idea mi intriga: alla fin fine Aaker e Bagdonas lo insegnano all’università per cui l’idea non è peregrina. Leggerò il loro libro e proverò a capirne di più. Nel frattempo, provo a commettere il peccato mortale di fornire un elenco di comportamenti, di qualcosa che è “necessario ma non sufficiente” per introdurre un po’ di ironia tra gli strumenti manageriali.

1. Avere senso dell’umorismo non significa prendere in giro qualcuno. Prendere per i fondelli un collega significa attaccarlo, prendere per i fondelli un collaboratore proprio non sta né in cielo né in terra. Ma si può fare anche di peggio e cioè andare dalla persona dileggiata, che magari l’ha presa male, e dirle “… ma fatti una risata!”. No, non si fa.

2. Il senso dell’umorismo non coincide con il semplice sorridere. Per carità, sorridere è una cosa bella, dispone meglio noi stessi e chi sta intorno a noi, in azienda. Ma il senso dell’umorismo non c’entra molto, con il sorridere. Ne è dimostrazione inequivocabile Buster Keaton, a cui il senso dell’umorismo certo non mancava, ma che era definito ‘l’uomo che non sorrideva mai’.

3. Corollario al punto precedente: le faccine, gli emoticon o gli emoji non trasformano un messaggio da “pomposo” a “pieno di humour”.

4. L’umorismo non è dichiarato, è praticato. E se non fa parte del nostro stile e vogliamo introdurlo, mi raccomando: con tutto il tatto possibile.

5. È rivolto soprattutto verso se stessi. Se il capo vuole che le persone con cui lavora usino il senso dell’umorismo per vivere meglio difficoltà e pressione, è meglio che cominci a farlo in prima persona.

6. Non si può imporre. Non possiamo pretendere da una persona sotto pressione che veda subito gli aspetti umoristici della propria condizione. Anzi, forzarlo affinché lo faccia può peggiorare la situazione. Equivale a dire alla persona in difficoltà “vabbè, quello che passi non è poi così grave, ridici sopra!”.

7. Non esistono situazioni in cui il senso dell’umorismo non sia applicabile. Mi vengono in mente tre casi, uno internazionale di un comico che adoro, uno nazionale di un’azienda dirompente, e un terzo più personale. Il primo è Ricky Gervais, comico inglese a dir poco irriverente. Qui il suo monologo introduttivo alla cerimonia di assegnazione dei Golden Globe; mentre qui descrive la sua idea di umorismo. Il secondo è Taffofuneralservices azienda che ha costruito notorietà ironizzando sul tabù più tabù di tutti: la morte. L’ultimo arriva dal mio collega Daniele, che da appassionato (e anche un po’ di più) di cambiamento climatico, mi ha segnalato un podcast che di questo parla. Emergenza Climattina è tenuto da Giovanni Mori, un giovane ingegnere energetico e ambientale. Mori parla senza mezzi termini della grave emergenza conseguenza dei gas serra. Lo fa con cognizione di causa e precisione. Ma lo fa anche con un’ironia il cui effetto, almeno su di me, è di mettermi in atteggiamento positivo: è un problema enorme, ma lo possiamo affrontare. E se è vero per quella che, forse, è la più grande emergenza della nostra storia, lo dev’essere anche nelle avversità che incontriamo sul lavoro.

Poi comunque, gestire persone continua ad essere il lavoro più complesso (nel senso che le relazioni causa-effetto non sempre sono comprensibili, neanche a posteriori) del mondo, secondo solo al crescere figli.

Che infatti per gli inglesi è “Raising kids is a walk in the park. Jurassic Park”.


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