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Più mi sei vicino, meno ti ascolto

Photo by Nathan Cowley from Pexels

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«È inutile che io gli parli: so già cosa mi dirà». Chi avesse brevettato una frase del genere, sarebbe da tempo una delle persone più ricche del mondo. Sono parole che sentiamo dire – e che noi stessi diciamo – in riferimento a qualcuno con cui non si va molto d’accordo. Un collega poco propenso ad accettare critiche, un capo convinto  di aver sempre ragione, un collaboratore che ‘tanto fa sempre di testa sua’.

In realtà, una frase del genere si adegua non tanto alle persone con cui non c’è affinità (come capi o colleghi con cui manca la stima reciproca). È una frase più adatta a descrivere la nostra relazione con chi sentiamo vicini, come una persona amata o un collega con cui siamo molto affiati.

Kate Murphy, nel suo articolo You’re not listening. Here’s Why (Non stai ascoltando. Ecco perché) parla del bias della closeness-communication, dove closeness è traducibile come vicinanza in senso affettivo, relazionale. Kate Murphy – che abbiamo già incontrato, qualche settimana fa – scrivendo il suo libro appena uscito ha scoperto una cosa sorprendente: le persone che ascoltiamo di meno sono quelle a cui siamo più legate.

Questo perché siamo convinti di sapere già cos’hanno da dire. Dunque, in modo quasi inconscio, evitiamo di ‘perdere tempo ed energie’ ad ascoltare qualcosa che già conosciamo. O, meglio, crediamo di conoscere. È così che funziona, il bias della closeness-communication. Le conseguenze, però, sono spesso spiazzanti. La persona con cui lavoriamo gomito a gomito da cinque anni, un giorno ci viene a dire che non condivide nulla di quello che facciamo da parecchio tempo a questa parte.

Ci sentiamo traditi: come mai se ne viene fuori adesso, senza aver mai detto nulla prima? Certo, alle volte può essere che sia andata così, e cioè che davvero non abbia mai detto nulla. Ma può essere anche andata diversamente. Può essere che più volte abbia tirato fuori qualcosa che non va, su cui non è d’accordo. Semplicemente, non abbiamo ascoltato le sue parole, non abbiamo colto i suoi segnali. Perché credevamo di sapere già cos’avrebbe detto.

Kate Murphy racconta un interessante esperimento condotto nel 2010. A un campione di persone è stato chiesto di dialogare sia con amici o parenti stretti, sia con sconosciuti. I ricercatori, a sorpresa, interrompevano la chiacchierata e chiedevano alla persona sotto osservazione: «cosa pensi che stia per dire, il tuo interlocutore?». Risultato: ci azzeccava di più con lo sconosciuto che con la persona che ‘conoscevano benissimo’.

Cosa ne dobbiamo concludere? Che nella vita privata, tipo nelle relazioni di coppia o tra genitori e figli, siamo condannati a non ascoltarci?

E che al lavoro è meglio non avere stretti collaboratori o colleghi con cui ci intendiamo di più perché, inesorabilmente, finiranno per essere quelli che ascoltiamo di meno?

No, più semplicemente possiamo fare alcune cose pratiche. Ad esempio, rivolgere più domande a chi ci sta vicino, e non solo per questioni logistiche. Possiamo chiedere ‘come stai?’ e poi ascoltare davvero la risposta che ci dà. Possiamo chiedere più spesso di farci spiegare le cose, possiamo chiedere maggiori dettagli su quello che ci sta raccontando.

E poi possiamo fare una cosa innovativa. Quando non siamo nella disposizione d’animo giusta – per un motivo o per l’altro – con tutto il garbo di cui siamo capaci, possiamo dire a chi ci sta parlando che non vogliamo ascoltare. La persona in questione la prenderà male? Forse no. Forse la franchezza verrà apprezzata e, soprattutto, è decisamente meglio che  ascoltare salvo poi non registrare nulla di quello che ci sta dicendo. Perché, tanto, siamo convinti di saperlo già.

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