Il 12 aprile di trentacinque anni fa il primo Shuttle viene lanciato nello spazio. Meno di cinque anni dopo il secondo velivolo della flotta, il Challenger, va in pezzi. Non è un incidente imprevedibile, è la logica conseguenza di qualcosa che non funziona, nel progetto dello Shuttle. Qualcosa che si è manifestato sin dall’inizio, di cui la NASA è perfettamente a conoscenza e che però non ha risolto.
Uno Shuttle è composto da quattro parti. C’è la navicella, l’orbiter, dove viaggia l’equipaggio. Poi ci sono tre razzi che servono per portarlo in quota. Uno è molto grande e funziona con ossigeno e idrogeno liquidi. Gli altri due sono lunghi e stretti e contengono un combustibile solido. Sono i razzi più potenti mai costruiti. Di tutto ciò, la sola cosa che non si ricupera, al termine della missione, è il grande serbatoio di combustibile liquido, che esplode in cielo una volta svuotato. L’orbiter atterra come un aereo. I due serbatoi di combustibile solido vengono invece fatti planare in mare e utilizzati di nuovo nei viaggi successivi.
È da uno di questi due razzi che proviene il problema che ha causato la tragedia del 28 gennaio 1986.
Quel mattino, lo Shuttle Challenger che è pronto sulla rampa di lancio, è alla sua decima missione. A bordo ci sono sette astronauti. Il comandante è Dick Scobee, che l’aveva già guidato. Ci sono scienziati, astronauti e un veterano del Vietnam. E poi c’è Christa McAuliff, un’insegnante di 37 anni. Lei e una sua collega — che dovrà partecipare a una missione successiva — sono state selezionate tra oltre 11.000 candidati. Saranno le testimonial di un programma chiamato Teacher in Space, voluto per promuovere tra i giovani lo studio della matematica e delle scienze grazie lezioni in onda dallo spazio.
Alle 11.39 lo Shuttle si stacca dal suolo del Kennedy Space Center. Meno di un secondo dopo la partenza esce dalla lamiera di uno dei due razzi a combustibile solido uno sbuffo di fumo nero. Nel giro di un paio di secondi ne escono altri otto.
A 59″ dal decollo, una grande fiammata esce dal serbatoio a combustibile solido, quello che ha emesso gli sbuffi neri. La fiammata investe il grande serbatoio di ossigeno e idrogeno, che comincia a perdere carburante. Scoppia un incendio. Da terra vedono tutto, ma non possono farci niente.
Dopo 73″, lo Shuttle si frantuma. Non c’è un’esplosione vera e propria, sono i quattro pezzi che si separano gli uni dagli altri e vanno per conto proprio. Il grande serbatoio di idrogeno e ossigeno liquidi è una palla di fuoco. I due razzi con combustibile solido proseguono la propria corsa. La navicella Challenger, con a bordo l’equipaggio, inizia a cadere verso il mare. Molto probabilmente gli astronauti muoiono solo quando lo Shuttle colpisce l’acqua alla velocità di 333 km/h, quasi tre minuti dopo il distacco delle parti.
Il presidente Ronald Reagan rinvia il discorso sullo Stato dell’Unione, previsto per quella stessa sera, e si presenta alle telecamere per commentare la tragedia. Dopo alcune parole di cordoglio e di elogio dell’equipaggio, dice che il futuro appartiene ai coraggiosi.
Ma questa storia non ha niente a che vedere con coraggio e il futuro. È invece la storia di un lavoro fatto male, molto male.
Per capire come sono andate le cose, a Washington si istituisce una commissione. A presiederla c’è William Pierce Rogers, un politico navigato. È stato segretario di stato con il presidente Nixon. Vicepresidente della Commissione è nientemeno che Neil Armstrong, il primo uomo ad aver messo il piede sulla luna. Altro personaggio famoso è Sally Ride, la prima donna americana ad aver viaggiato nello spazio, tre anni prima dell’incidente e proprio con lo Shuttle che si è appena distrutto, il Challenger.
Ma vi è anche un premio Nobel, il professore Richard Feynman. L’idea di chiamarlo è stata di William Graham, direttore esecutivo della NASA, che è stato suo studente all’università. Feynman, 68 anni, è senz’altro il più grande fisico vivente.
Feynman, dopo qualche perplessità, accetta e si butta nella vicenda anima e corpo. Comunica alla sua università che per i prossimi sei mesi si sarebbe «suicidato», cioè avrebbe sospeso ogni attività di ricerca per dedicarsi allo Shuttle e lo fa ancora prima di andare nella capitale.
Feynman insegna al Caltech, un’università che si trova a Pasadena, in California. In questa città c’è anche un centro altamente specializzato nella produzione di motori, fornitore della NASA. I tecnici del centro spiegano al premio Nobel com’è fatto lo Shuttle e, quando discutono dell’incidente, gli manifestano ben pochi dubbi: a loro risulta che le guarnizioni dei missili abbiano sempre avuto dei problemi, nulla di sorprendente che abbiano ceduto.
I missili di cui parlano sono i due lunghi e stretti, quelli a combustibile solido, composti da cilindri di acciaio incastrati l’uno sopra l’altro grazie a una specie di spina. In questa spina ci sono delle gomme che servono a non far uscire il combustibile e, al tempo stesso, garantire ai razzi l’elasticità necessaria per affrontare il volo. Probabilmente, dicono a Feynmann gli esperti del centro di Pasadena, sono state queste guarnizioni a lasciar uscire prima gli sbuffi neri e poi le fiammate che sono andate contro il grande serbatoio di combustibile liquido.
I tecnici della NASA — con cui Feynman riesce a parlare solo dopo aver affrontato un po’ di ostacoli burocratici — gli confermano tutto: le guarnizioni dei razzi a carburante solido hanno creato difficoltà agli Shuttle sin dai primi collaudi. Al termine di ben dodici dei voli precedenti, quindi in un volo su due, l’analisi sui razzi ricuperati ha mostrato un serio danneggiamento delle guarnizioni.
Tanto i tecnici della NASA quanto quelli della Thiokol, l’azienda che costruisce i razzi, sono ben coscienti del problema. Alcuni di loro lo hanno segnalato più volte. Ma sembra che, a livello dirigenziale, queste preoccupazioni non siano mai state prese seriamente. I voli non vengono non solo sospesi ma neppure diminuiti, come chiesto dai tecnici per guadagnare un po’ di tempo utile a studiare il problema.
Nell’estate del 1985 un ingegnere della Thiokol aveva alzato il livello d’allarme. Aveva scritto in un memorandum che il problema delle guarnizioni può avere conseguenze gravissime, inclusa la perdita di vite umane. I manager risposero creando un team di cinque persone, peraltro neanche a tempo pieno. E i voli continuarono, a ritmo serrato.
Per riassumere, i manager conoscevano il problema, ma dicevano: se sinora tutto è andato bene, non c’è motivo per interrompere i voli. Secondo Feynman questo modo di fare equivale a una roulette russa, quel gioco macabro che si fa con una pistola a tamburo. Può andarti bene, sino a quando il colpo non va in canna.
E il 28 gennaio 1986, a mettere il colpo in canna, è stato il freddo. La Florida è uno stato dal clima molto mite, ma quel mattino c’è un freddo eccezionale. La temperatura al Kennedy Space Center è di 1,5 gradi sotto lo zero. In precedenza, il lancio in condizioni più fredde era avvenuto a oltre 11 gradi sopra lo zero. Alcuni tecnici della Thiokol, preoccupati, avevano raccomandato un rinvio. Ma i manager della NASA decisero di andare avanti lo stesso, perché le previsioni non lasciavano sperare in un miglioramento del tempo a breve.
Feynman, in una delle riunioni pubbliche che la commissione teneva ogni tanto, immerge la gomma di cui sono fatte le guarnizioni in un bicchiere di acqua gelata. Quando la tira fuori mostra come la gomma abbia perso gran parte della sua elasticità. Non è più in grado di isolare alcunché.
La stessa cosa è successa quel mattino, a Cape Canaveral. Le guarnizioni, prima ancora che lo Shuttle prendesse il volo, erano già state gravemente danneggiate dalla bassa temperatura. Per questo, da subito, erano usciti dal razzo degli sbuffi neri. La ragione del disastro, in sintesi, è tutta nelle guarnizioni difettose, un problema presente sin dall’inizio dell’avventura dello Shuttle. Che però non si è mai affrontato seriamente. Non si è mai pensato di fermare i viaggi anche dopo decine di segni d’allarme.
Ma com’è possibile che alla NASA si siano comportati in questo modo?
Secondo Feynman la spiegazione si trova nella stessa storia della prestigiosa agenzia spaziale. Una storia che, a sua volta, è ambientata nel grande teatro della Guerra Fredda.
L’Unione Sovietica parte in netto vantaggio, con la missione del cane Laika prima e quella di Yuri Gagarin dopo. Ma tutti gli USA paese rispondono con energia ed entusiasmo. La NASA guida la rincorsa, che culmina nel 1969, quando gli Stati Uniti arrivano sulla luna.
Fino a questo momento, dice Feynman, non c’erano problemi tra i manager della NASA e gli altri lavoratori. La comunicazione tra le varie parti dell’organizzazione funzionava, perché tutti cercavano di fare la stessa cosa: vincere la corsa allo spazio.
Una volta arrivati sulla Luna, però, le cose si sono complicate. Perché la NASA è diventata una struttura enorme e il problema diventa trovarle qualcosa da fare. In un articolo del 1987, in cui racconta la sua partecipazione alla commissione d’inchiesta sull’incidente dello Shuttle, Feynman scrive: «Bisogna convincere il Congresso che esiste un progetto che questa organizzazione può realizzare, e per questo si deve esagerare. Esagerare su quanto economico sarà lo Shuttle, esagerare sulle grandi scoperte scientifiche che potranno essere fatte. A mio parere — sostiene il fisico — ciò che accadde fu che sebbene gli ingegneri che lavoravano alla base sapessero che le affermazioni della NASA erano impossibili, e quelli che stavano ai vertici sapessero che in qualche modo avevano esagerato, questi ultimi non volevano sentirsi dire che avevano esagerato! Non volevano stare a sentire le difficoltà degli ingegneri — il fatto che lo Shuttle non poteva volare così spesso e così via».
Feynman stesso riconosce che questa sua analisi non è condivisa da molte delle persone con cui si è confrontato. Però la sensazione che la NASA si parecchio cambiata, e non in meglio, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, è piuttosto forte.
Insomma, mancava una motivazione legata a un obiettivo forte, concreto, condiviso, com’era stata la conquista della Luna. L’unica cosa che sembrava interessare i dirigenti della NASA, in quel periodo, era mantenere in vita la NASA stessa.
La tragedia dello Shuttle ha delle conseguenze importanti anche sul piano economico. La NASA si era aperta ai privati per il lancio di satelliti e questi clienti svaniscono. Anche il Dipartimento della difesa americana si tira indietro, nonostante esistesse un progetto di collaborazione molto avanzato: erano state già costruite una navetta e una rampa di lancio dedicate ai militari.
Dopo l’incidente, affinché un altro Shuttle prenda il volo devono passare quasi tre anni. Poi, il 1 febbraio 2003, avviene il secondo incidente mortale. Il Columbia, il primo a essere stato costruito, questa volta in fase di rientro, s’incendia. La causa è un guasto avvenuto in fase di decollo allo scudo termico della navetta. Ma, di nuovo, si tratta di una tragedia evitabile, perché legata a un problema noto ma trascurato.
Nel gennaio dell’anno seguente il presidente Bush mette di fatto fine alla storia dello Shuttle, dando priorità alle esplorazioni del sistema solare e alla progettazione di nuove missioni umane ben al di là dell’orbita terrestre. Lo Shuttle vola ancora parecchio tempo, in realtà. L’ultima missione avviene nel luglio 2011, con il compito di trasportare alcuni astronauti e apparecchiature sulla stazione spaziale internazionale.
Oggi, le navette Shuttle sopravvissute continuano a promuovere la scienza. Ma lo fanno lontano dai cieli e dalle stelle, bensì restando esposti nei musei, dove i visitatori, pezzo di storia della conquista del cielo.
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