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Se aiuti un collega fai sempre una cosa buona. Dimostri empatia, capacità di cooperare, spirito di squadra. O forse no. Forse, quando aiuti un collega, non sei animato da buone intenzioni. Forse, stai cercando di metterti in mostra di fronte ai capi. O addirittura di mettere in cattiva luce il collega «Vedete? Non sa cavarsela da solo, ha bisogno del mio aiuto».
Gli altruisti sono antipatici. E la colpa è solo loro, è un articolo comparso sul Il Sole 24 Ore, il 26 gennaio scorso. Un titolo eloquente, che introduce a una riflessione parecchio interessante. L’autore, il professor Vittorio Pelligra, ricorda che l’altruismo è guardato con sospetto da parecchio tempo e da sguardi autorevoli: Freud lo definiva ‘sospetto’, Nietzsche addirittura odioso.
Pelligra racconta di esperimenti compiuti in varie parti del mondo, da cui si evince la tendenza a punire i free-rider, «coloro, cioè, che non fanno tutta la loro parte in un processo collettivo. Coloro che, in un team, battono la fiacca sapendo che qualcun altro farà il lavoro al loro posto». Ma questi esperimenti dimostrano che anche quelli che cooperano molto non sono sempre visti bene. Questo è vero soprattutto in Russia, nei paesi arabi e in quelli del sud Europa (tra cui c’è anche il nostro, notiamo di passaggio).
Focalizzando la nostra attenzione sul mondo del lavoro, viene da pensare che uno dei motivi per guardar male chi ‘aiuta troppo’ potrebbe essere che alza l’asticella. Il mio collega si ferma sino a tardi per aiutare un terzo collega, io invece vado a casa. Significa che lui è bravo e io no? Significa che domani anche io devo tirare lungo facendo il buon Samaritano?
Oppure può essere visto male, il collega altruista, perché mina ‘l’ordine costituito’. Ognuno ha i propri compiti: un aiuto ogni tanto ci può stare, ma se tutti ci mettiamo a fare i lavori degli altri, non ci si capisce più niente.
Infine, l’altruismo in ufficio può essere considerato un modo subdolo per fare carriera, un mettersi in mostra sfruttando le difficoltà altrui, un ostentare la propria capacità di fare qualcosa al di là del proprio compito e catturare così l’attenzione dei capi. Insomma, altro che altruista: chi aiuta gli altri pensa solo al proprio tornaconto personale.
Forse è proprio questo il nocciolo: il tornaconto personale, che detto così è detto male, meglio chiamarlo ‘interesse’. Sia chiaro, l’altruismo immediato, che ci porta a dare una mano a chi è in difficoltà senza pensarci troppo, è una cosa buona e, probabilmente, è tra i fattori che hanno consentito alla nostra specie di svilupparsi per qualche centinaia di migliaia di anni (sul futuro si vedrà). Ma sul posto di lavoro, forse, il concetto di altruismo potrebbe essere superato da quello di allargamento della visione.
Si tratta di valorizzare quegli aiuti di cui non beneficia solo una singola persona, ma l’azienda – o una sua parte – nel complesso, cosa che è interesse di tutti. L’esempio banale, in negativo, potrebbe essere questo: non viene in mente a nessuno di definire ‘altruista’ chi timbra il cartellino di un collega assente. Esempio opposto forse non meno banale: dedicare del tempo a spiegare una cosa, anziché farla al posto di un altro, ha un effetto positivo, sul livello del lavoro in uffcio. Ancora, aiutare qualcuno a rispettare una scadenza può avere un beneficio, a cascata, sul lavoro di altri colleghi.
In definitiva, l’aiuto non è un valore in se stesso, è uno strumento che aiuta a lavorare meglio, anche perché aiuta a capire. La cooperazione combatte la tendenza a lavorare a compartimenti stagni, diminuisce il rischio di pensare solo al proprio compito, perdendo di vista questioni più generali e più importanti.
Aiutare aiuta a vedere le cose da punti di vista diversi.
Chiedersi ‘posso aiutare qualcuno’, una volta ogni tanto, senza aspettare che la richiesta arrivi, potrebbe essere prima di tutto un modo per avere una visione più allaragata delle cose e, dunque, vederle meglio.
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