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Banale felicità

Il podcast – da ascoltare, che a leggere stavolta è lunga – lo si trova qua.

Foto di Pixabay, da Pexels,

 

Vorremmo soltanto essere felici.

Benvenute e benvenuti al tredicesimo e ultimo episodio della serie Non ce la posso fare! Parlare di felicità, in questa occasione, ci è sembrato naturale. Perché essere felici è fondamentale. E c’entra con il lavoro, a nostro parere, perché – quando ce l’abbiamo, il lavoro – è l’attività che c’impegna di più, mentre siamo svegli (anzi: è talmente invadente, che alle volte si prende pure le ore di sonno).

Cercare di essere felici, almeno ogni tanto, sul lavoro, sembra una richiesta più che legittima. Ma è anche realizzabile? Ne parlo con Paolo Vergnani, presidente nonché fondatore di SPELL, con cui abbiamo già accennato a questo tema in un episodio di A livello del lavoro, un altro dei podcast che curiamo come SPELL, che significa Società per Elevare il Livello del Lavoro e, con Paolo, in quel giorno che era il 7 maggio, ci siamo chiesti se parlare di ‘livello del lavoro’ significa anche parlare di felicità sul lavoro.

Tu, Paolo, hai risposto «si, però», dove il però era l’evitare cadere nella trappola di considerare la felicità uno ‘stato’ mentre invece, hai spiegato, è un picco, un differenziale.

Sostanzialmente, noi confondiamo la felicità con il benessere. Il benessere può essere uno stato, e quindi una condizione che si protrae nel tempo. La felicità è invece un differenziale, una sparata, che per definizione non può durare più di tanto. Avere l’aspettativa di una felicità duratura finisce per essere un vettore di infelicità, perché ci sentiamo in colpa se non riusciamo a essere e restare felici. Questo succede nelle relazioni di coppia, dove ci si aspetta di sentire sempre le farfalle nello stomaco, ma anche al lavoro, dove succede che c’è l’entusiasmo per una condizione nuova, che però è destinata a esaurirsi, a non essere più nuova.

A questo proposito esiste il paradosso di Easterlin che Daniel Kahneman ha commentato e ampliato nel concetto della ruota del criceto. È legata alla convinzione molto italiana che il denaro sia una fonte di motivazione. Pensate a un aumento di stipendio che vi porti a essere motivati, e dunque felici del vostro lavoro. Avendo a disposizione sareste felici, ma poi cosa accadrebbe? Con questi soldi comprereste delle cose e queste cose vi renderebbero felici. Ma non è che quando compriamo un nuovo abito o una nuova auto rimaniamo felici per sempre. Certo, lo siamo per un po’, ma poi incorporiamo la novita nel nostro stato. Ci siamo abituati alla nuova condizione, che non ci dà più felicità.

E però viene da pensare questo: che il tema della felicità sia fortemente legato a quello del cambiamento. Sembrerebbe cioè che fare lo stesso lavoro per molti anni sia un ostacolo bello potente alla felicità.

Lo è, a meno che non abbiamo delle strutture personali molto particolari. Pensare di essere felici facendo sempre la stessa cosa, non funziona. Certo potrebbe funzionare se accadesse qualcosa che ci fa rischiare di perderlo il lavoro. Se invece il lavoro non perdiamo, questo pericolo scampato, per un certo tempo limitato, ci dà della felicità.

Questo mi fa venire in mente che un ipocondriaco dovrebbe essere particolarmente felice. Sente un dolorino lì, pensa «signur, sto per schiattare», poi scopre che il dolorino non era niente e diventa la persona più felice del mondo.

È corretto. L’ipocondriaco sperimenta con grande frequenza questi picchi, ma li sperimenta perché l’ipocondria lo porta ad avere picchi negativi. Partendo da un ‘oddio sto morendo!’, quando scopri che non è vero fai un differenziale forte e quindi sei molto contento.

In un episodio dei nostri podcast abbiamo parlato di La legge del contrario. Stare bene con se stessi senza preoccuparsi della felicità, un libro scritto dal giornalista del Guardian Oliver Burkeman. Burkeman è stato a Kibera, uno dei più grandi slum dell’Africa, alle porte di Nairobi. Si è chiesto se anche nelle condizioni terribili in cui vivono le persone a Kibera, fosse possibile essere felici. E la risposta è assolutamente sì.

Assolutamente sì, certo. Innanzitutto, anche in uno slum puoi instaurare delle relazioni sociali che ti danno soddisfazione duratura. E comunque, nel momento in cui vivi in una condizione anche molto misera, può bastare una minima cosa per darti un picco di felicità. In fondo vale quello che dicevano saggiamente i nostri nonni: «la fame è il miglior condimento». Nel momento in cui hai accesso a qualsiasi tipo di cibo, raramente provi un piacere duraturo.

Tornando al tema del lavoro, viene da pensare alla precarietà. Non è certo una cosa bella, essere precari sul lavoro. Però, verrebbe da pensare che pur essendo precari, si può anche essere felici grazie al proprio lavoro.

Ci sono stati gli anni del mito del posto fisso in cui, generalizzando, le persone avevano una tranquillità che permettera loro di mettere su famiglia e fare una vita tranquilla, appunto. Avevano un lavoro stabile che oggi molto rimpiangono, stabile non solo dal punto di vista del ‘non perderlo’ ma anche del non doversi rimettere spesso in discussione, affrontando cambiamenti e dovendo imparare cose nuove. Si rischiava di fare la stessa cosa per quarant’anni, e infatti si parlava di alienazione da lavoro e di persone che fossero intrinsecamente contente del lavoro, non ce n’erano poi tantissime.

Dobbiamo dunque distinguere la precarietà che ha un costo altissimo sulla vita personale da quella che mi porta a dire «tutto quello che ho imparato sino a ieri, oggi cambia e devo sempre imparare delle cose nuove». Paradossalmente, questo secondo concetto di precarietà potrebbe essere più vicino alla felicità. Poi ci sono soggetti a cui questa condizione di costante cambiamento mette in difficoltà, per altri invece questa condizione è molto più stimolante.

Prima hai parlato di ruota del criceto, e mi hai così fatto venire in mente una cosa che ho letto su Medium.com, il social frequentato da chi scrive e legge in modo un po’ più riflessivo, più profondo rispetto a quanto accade su altri social che vanno per la maggiore. Era un articolo di cui ti dico solo il titolo: Happiness is for animals; meaning is for human, cioè gli animali possono essere felici, agli esseri umani tocca invece cercare il senso, il significato delle cose. Che ne pensi?

Questo è un altro piano interessante. Una delle cose che può contribuire se non alla felicità almeno al benessere riguarda proprio il senso di quello che stiamo facendo. Uno dei primi che mise a fuoco questo concetto fu Konrad Lorenz, secondo cui uno dei peccati capitali della nostra civiltà è stato il passaggio da una produzione artigianale a una produzione di tipo industriale. L’artigiano, in una settimana, costruisce un tavolo. Alla fine della settimana dà un senso alla sua fatica, perché si guarda il suo tavolo e dice «guarda che tavolo che ho fatto!». Molte persone non hanno il senso dello sforzo che stanno compiendo, al di là del procurarsi i mezzi di sussistenza. Non riescono a vedere il significato del proprio lavoro, a meno che non abbiano un capo che è capace di crearti questa condizione, o rischi ancora una volta di percepire soltanto lo sforzo, la privazione che deriva dal tuo lavoro ma non il senso di quello che stai facendo.

Questo ci porta a riflettere su cosa uno fa di lavoro. Chi lavora in un’organizzazione di quelle che salvano il mondo – che si occupano dell’ambiente, di bambini, di vittime di ingiustizie, di persone malate – dovrebbero dare un forte senso al proprio lavoro. Non dovrebbero fare nessuna fatica ad alzarsi il mattino per andare al lavoro, perché… beh, più significato di così…

E invece questa cosa qua non è così vera. Dal punto di vista del dare significato, e magari anche provare felicità, almeno ogni tanto, non credo che ci sia questa gran differenza tra chi lavora in un’organizzazione di buoni che perseguono una causa nobile e e chi lavora in un’azienda che fa altro.

È corretto. Anche chi lavora in un’associazione di ‘buoni’, finisce che fa un lavoro che è più simile a quello di qualsiasi impiegato e finisce per dimenticarsi cosa sta facendo, ovvero il senso profondo. Ecco perché è essenziale che ci siano figure che riescono a comunicare e a ricordare a queste persone cosa sta accadendo. Non è che in queste organizzazioni uno fisicamente salva il bambino con le proprie mani. Magari vede un foglio excel, il che però comporta il rischio di perdere il senso di quello che si sta facendo.

In quello che hai appena detto mi sembra ci siano delle indicazioni per i capi, su quello che devono fare se vogliono collaboratori a cui è chiaro il senso di quello che fanno e che quindi abbiano anche l’opportunità di provare felicità sul lavoro. Ma se dovessimo dare degli spunti a chi capo non è, per trovare senso e magari pure felicità sul lavoro?

Mi viene in mente una frase attribuita a un sacco di gente ma che io ho trovato come incipit a Il manuale dell’allegra battona. «Non importa quello che fai ma come lo fai». Uno degli elementi che ci motivano è avere la percezione che stai imparando qualcosa, che ogni giorno, quello che stai facendo ti riesce un pochino meglio. Bisogna contrastare la rassicurante pigrizia che ti porta a economizzare energia, mettere su gli automatismi e fare sempre le stesse cose, sempre nello stesso modo. Fare sempre le stesse cose assomiglia a un vago benessere, dà protezione, però è solo un’illusione. Ti mette in condizione di non sbagliare, ma ti appiattisce tutto. Mettersi in condizione di imparare cose nuove, di affrontare una sfida, purché sia percepita come ragionevole, segna la differenza tra quando facciamo una cosa per lavoro e quando la facciamo per passione o divertimento, tipo quando andiamo in palestra o quando impariamo a suonare uno strumento, che ci soddisfano – guarda caso – sinché sentiamo che stiamo progredendo.

Per intanto specifico che Il manuela dell’allegra battona non se l’è inventato Paolo, esiste davvero, è uscito negli anni Settanta per l’editore Mazzotta, autrice anonima. Ancora una domanda, Paolo: non si può spingere un po’ di più? Non si può chiedere a ogni lavoratore – a qualunque livello si trovi, dai più alti ai più bassi, dai più qualificati ai meno qualificati – di fare questo esercizio, non lo so, ogni 3-4-5-6 anni, prova a cambiare lavoro. Poi magari non lo cambi, poi magari resti dove sei. Però, provaci. Potrebbe essere un gioco, uno stimolo utile?

Potrebbe esserlo e in realtà ci sono aziende che questa cosa, al proprio interno, stanno cominciando a farla. Da un lato per aumentare lo stimolo alle persone che sennò inevitabilmente rischiano di sedersi. Dall’altro è anche utile sul piano relazionale, perché questo ti allarga le possibilità di vedere cosa sta facendo l’azienda. Si riduce così l’effetto ‘catena di montaggio’, a favore del senso di quello che si fa e si capisce che gli altri – i colleghi di altri settori – non sono nemici ma persone che stanno facendo delle cose come te. Insomma, aiuta a comprendere la prospettiva altrui.

Grazie Paolo!

La serie Non ce la posso fare, finisce qui, e finisce dopo tredici episodi. Che è un numero primo, bellissimo. Noi di SPELL, però, non smettiamo di fare podcast, assolutamente no! Anzi, posso anticipare la prossima serie, dedicata all’asino e alla sicurezza.

Un saluto da Daniele e a risentirci!

 

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