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La mia azienda suona il rock

Il podcast è qui, il testo è qui sotto, i Beatles sono ovunque, ma a noi piacciono soprattutto in versione bianca. Per la foto, grazie a Edward Eyer.

 

«Se i gruppi rock sono aziende, le aziende somigliano sempre più ai gruppi rock». Sul settimanale Internazionale uscito venerdì 11 gennaio, c’è un articolo dal titolo Guida rock alla gestione aziendale. Un testo interessante, che fornisce molti spunti. Ma che, inevitabilmente, rimanda a una pratica ampiamente – e non così felicemente – diffusa, sul mondo del lavoro: l’uso delle metafore.

L’articolo pubblicato da Internazionale è la traduzione di un pezzo uscito sull’Economist a firma di Ian Leslie. Un testo indubbiamente serio che, in effetti, non gioca sulle metafore ma sulle analogie. Leslie prende i casi di gruppi rock estremamente famosi, a partire dal più famoso di tutti, quello dei Beatles, e ragiona su come democrazia, divisione di compiti e ruoli, retribuzioni, amicizia e via dicendo, hanno determinato le sorti di un gruppo e dell’altro.

Tra i quattro di Liverpool, spiega il giornalista britannico, l’amicizia non solo era sincera, ma era anche molto forte, molto profonda. Il che ha qualcosa a che fare, con il fatto che dopo solo sette anni la band si è sciolta? A leggere l’articolo, sembrerebbe di sì. Nei Rolling Stones l’amicizia certo è presente, ma non è centrale come lo era per i Beatles. E, guarda caso, Mick Jagger, Keith Richards e compagni continuano a suonare ancora oggi, a quasi 57 anni dalla nascita della loro band.

Dunque, nei gruppi rock come nelle aziende è meglio non dare troppo peso all’amicizia? Ovviamente la cosa non è così semplice. Perché in quei sette anni di attività, Harrison, Lennon, Mc Cartney e Starr hanno avuto una vena creativa e innovatrice come mai era accaduto prima e ancora non è accaduto dopo. I Rolling Stones invece, scrive Ian Leslie, hanno smesso di innovare alla fine degli anni ’70.

Una parte dell’articolo è dedicata a come, dentro le band, vengono prese le decisioni. Bruce Springsteen è definito non a caso ‘il Boss’. Perché nei confronti del suo famoso gruppo di supporto, la E-street Band, i rapporti sono chiarissimi: Springsteen comanda. E dunque, nelle aziende è meglio avere una chiara figura di capo che prende le decisioni per tutti?

Anche in questo caso, la faccenda è sfumata. Sulla chiarezza, nulla da dire: che i processi decisionali debbano essere chiari è l’ABC, un ABC che spesso manca, tra le persone che lavorano insieme, siano rockettari, impiegati od operai. Ma che il processo decisionale funzioni solo se verticale, non è detto. Gli REM, che in Italia chiamiamo spesso REM, si sono sciolti amichevolmente nel 2011. Hanno lavorato insieme per trentun anni e, dopo il disco Green, del 1988 e ancor più Out of time, del 1991 – dove c’è Losing my religion, per capirci – hanno conosciuto un successo mondiale straordinario. Bene, all’interno dei REM le decisioni sono state sempre prese in modo ampiamente condiviso. Ogni membro del gruppo, ha sempre avuto la possibilità di porre il veto a una decisione che, magari, a tutti gli altri andava bene. E, ancor più, si sono sempre divisi i guadagni in parti uguali, a prescindere dal ruolo avuto nello scrivere le varie canzoni. Il che sembra non aver influito negativamente né sui rapporti interni al gruppo né sulla qualità della produzione.

Certo, questa uguaglianza esasperata non è così diffusa, anche se si può citare almeno un’altra banda di successo che la applica, vale a dire i Coldplay. E si deve ricordare un’esperienza anche in ambito calcistico, quella della democrazia corinthiana. Nel Brasile dei primi anni ’80, c’è una squadra, il Corinthias appunto, dove tutto si decide discutendone insieme e, alla fine, facendo valere il principio della maggioranza. Tutta ‘sta democrazia fa male, al Corinthias? Non sembra, perché trascinata da Socrates e Casagrande, la squadra vince partite e campionati.

Fin qui abbiamo parlato di analogie e parallelismi, analizzati e studiati con una certa cautela. I problemi, a mio avviso, saltano fuori quando nel mondo del lavoro si usano espressioni metaforiche un po’ audaci e, forse, un po’ abusate.

«Noi non siamo un semplice ufficio, siamo una squadra». Tanto per restare in ambito sportivo. Già, perché il settore sportivo resta uno dei più fertili campi di nascita delle metafore usate sul posto di lavoro. «Io non sono un capo, sono un coach»; «in azienda, come nel calcio, è il centravanti che segna, ma è la squadra che lo mette in condizione di farlo»; «senza i gregari, senza chi fa il lavoro oscuro – nelle aziende come nel ciclismo – non si potrebbe vincere nessuna gara».

Le metafore in ambito sportivo hanno un po’ soppiantato quelle provenienti dall’ambito militare, anche se termini come ‘battaglie’, ‘condottiero’ e via dicendo si sentono ancora. In tempi recenti ho visto prodursi molte metafore anche nel mondo scientifico: una che mi disorienta un po’ è quella che tira in ballo l’energia. Si parla di energia alta o bassa – in un gruppo al lavoro o in un evento – a seconda se le persone siano più o meno entusiaste o partecipi a quello che si fa. Oh, sia chiaro che è un problema mio, perché avendo studiato fisica, l’energia o che me la si esprime in Joule – ma posso accettare anche i kWh e le kCalorie – o che non capisco cosa sia.

La metafora che più resiste nel tempo, però, è sempre questa:

«In questa azienda siamo come una grande famiglia»

Metafora che a noi di SPELL, fa venire i capelli dritti (almeno a chi li ha, i capelli). Perché intervenire in un contesto organizzativo che si governa – o almeno si prova a governare – secondo regole, prassi, procedure è già abbastanza complicato. Intervenire in un gruppo di conviventi, dove a far girare tutto sono le relazioni affettive – tormentate o meno – com’è il caso della famiglia, è decisamente improbo. E infatti lo fanno i terapeuti, non noi.

Ma, per fortuna, abbiamo imparato nel tempo che chi ci dice «in quest’azienda siamo una grande famiglia», in realtà mente. Il che è un bene, perché così abbiamo la possibilità di renderci utili.

 

 

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