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Dove sono tutti? Lo smart working

Il podcast con questo testo lo trovate qua. Il testo, vabè, ovviamente sotto. La via di fuga, questa volta, è serissima. La foto è di Janeb13

 

Bentornate e bentornati a #NonCeLaPossoFare. Siamo arrivati al sesto episodio, che è dedicato allo smart working. Affinché questo episodio vedesse la luce, è stato necessario saltare una settimana e un giorno rispetto a quanto pianificato.

È una coincidenza? Una insolita sequenza di sfortunati eventi? Oppure, lo smart working è un altro ottimo esempio di quelle situazioni che, al lavoro, ci fanno dire Non Ce La Posso Fare?

Cosa significhi smart working, ormai lo sanno tutti: non hai voglia di andare in ufficio, stamattina? E che problema c’è: piazzati tranquillamente su un divano di casa, oppure sul tavolo della cucina, che così hai a disposizione frigo e caffè, ed è risolta. Alle tre del pomeriggio ti è passata la voglia di lavorare? Nessuna difficoltà! Pianta tutto e vai a fare un giro, per vetrine o in un parco, scegli tu.

Ti secca andare in riunione, dove sai che proverai una noia mortale? Calma, calma: ci sono ormai tanti modi di partecipare a un meeting in remoto, per cui tu puoi stare dove sei, collegarti e mentre fingi di partecipare alla riunione puoi occuparti di ciò che veramente ti interessa. Occhio solo, ogni tanto, a dire qualcosa del tipo «… il punto appena sollevato è molto importante…», «… occorre stressare la necessità di un rinnovamento…», «… attenzione a quelle skill che sono più consistenti con la nostra vision».

In altre parole, lo smart working consiste nel poter lavorare quando si vuole, dove si vuole e come si vuole.

O forse no. Cioè, sì, lo smart working si sviluppa lungo queste tre dimensioni è vero. Cioè, è un modo di lavorare che parte da una riflessione sugli orari: lo schema otto ore al giorno 8-17/9-18 è intoccabile?

La seconda dimensione è quella degli spazi: si deve sempre lavorare nella stessa postazione, tipicamente una scrivania in un ufficio, almeno nel caso di attività che non sono manufatturiere o al bancone?

E infine il come:  le modalità di lavoro devono essere il più possibile standardizzate, uguali per tutti, insomma?

La risposta a tutte queste tre domande è ‘no’. No, si può tentare di lavorare in un modo un po’ più elastico. Agile, dice la legge italiana.

Lo smart working dice che, in sostanza, ci si può organizzare per lavorare incastrando le proprie esigenze di natura personale, privata, con quelle dell’azienda per cui si lavora. Esigenze che, peraltro, nel corso della vita, cambiano. Quando abbiano appena terminato gli studi, se siamo così fortunati da trovare presto un’occupazione, in qualcosa che magari ci piace pure, non chiediamo di meglio che gettarci anima e corpo in questa nuova avventura.

Se ci capita di mettere su famiglia – e magari arrivano pure dei figli – il nostro modo di stare al mondo un po’ cambia. Ma questo non deve compromettere la possibilità di lavorare al meglio o addirittura bloccare la nostra carriera. Solo, ci si deve organizzare diversamente.

In ogni caso, non è mia intenzione, qui, raccontare per filo e per segno in cosa consista lo smart working ed elogiare le sue magnifiche sorti e progressive. Perché ci sono già ottime risorse, in rete, che spiegano i vantaggi di questo modo di lavorare. In Italia, per dare un riferimento autorevole, c’è l’osservatorio per lo smart working del Politecnico di Milano.

Qui vorrei solo evidenziare alcune obiezioni con cui è possibile avere a che fare, quando s’intraprende la strada dello smart working.

«Mica tutti possono lavorare da casa…». Frase che, seppur breve, contiene due problemi. Problema numero 1: smart working non significa semplicemente ‘lavoro da casa’. Significa lavorare nel posto dove, di volta in volta, è più sensato lavorare. Certo, il posto può essere casa, perché così la persona risparmia tempo e si risparmiamo emissioni nocive per l’ambiente, se la persona è solita spostarsi con mezzo privato che non sia la bicicletta. Ma il luogo dove si lavora può essere un locale pubblico (e qui subentra poi un’altra questione, la vediamo dopo). Secondo problema insito nella frase ‘mica tutti possono lavorare da casa’: l’idea che lo smart working sia una cosa possibile solo per lavoratori da un certo livello in su. Ok, questa cosa un piccolo fondamento ce l’ha: una persona che non ha un briciolo di autonomia, che non riesce a fare nulla se non è costantemente controllata, fatica a lavorare lontana da tutti. Epperò, se proprio non c’è nulla, ma nulla che possa fare in autonomia, viene il dubbio che il problema non sia tanto lo smart working, ma più in generale la capacità di questa persona di lavorare (o della sua capa/del suo capo di farla lavorare).

«Dobbiamo proteggere i nostri dati… non è che uno può collegarsi da qualunque posto». Osservazione sensata. Però è un problema tecnico: esistono chiavi per collegarsi a reti protette e via dicendo.

«Come faccio a esser certo che la persona lavori, se non c’è l’ho qua vicina?». E come si fa a essere sicuri che lavori quando è vicina? Perché sin dai primi anni di scuola abbiamo imparato a essere fisicamente presenti e mentalmente in viaggio verso galassie lontane. Risposta a entrambe le domande: capisci se la persona lavora a seconda che produca qualcosa o meno. Semplice no?

«Sì, vabè, figo lo smart working: ma per chi lavora attaccato a una macchina, in linea?». Ok, questa è sensata. E quindi va detto che lo smart working non lo possono fare sempre tutti. Per un paio d’anni ho lavorato in una lavanderia industriale. Si accendeva una caldaia, e farlo costava parecchio, e si doveva lavorare in un certo luogo con certi precisi orari. Non è che potessi dire «… mi porto a casa questo pacco di roba da lavare… » non foss’altro perché la lavatrice più piccola in quel posto era da 30 kg, la mia a casa era ed è di 6 kg. Inoltre, c’era molta biancheria proveniente da ospedali, biancheria che non è consigliabile portarsi, sporca, a casa. Sì, vero, c’erano anche delle tovaglie provenienti da un fan club della Juventus. Nessun problema sanitario, in questo caso, epperò io non le avrai mai – proprio mai – fatte entrare in casa mia.

«… ma se lo smart working lo fa uno, poi lo vogliono fare tutti…». Eh. E sarebbe pure un bene. Ma stiamo sul punto. Per quanto detto appena sopra, ci sono lavori che svolgere in modalità smart working è davvero difficile se non impossibile. Quindi può capitare che, all’interno di un’azienda, ci sia un amministrativo che può anche fare il lavoro a casa, e un addetto alla sorveglianza che da casa può fare poco… (per carità, può avere la videocamera di sorveglianza, ma se poi deve intervenire…). Questa obiezione, questa del ‘non posso far fare smart working a una o a uno che poi lo vogliono fare tutti’ nasconde però un fraintendimento: e cioè che smart working sia un premio. Ma non è un premio che dai a qualcuno, è una modalità organizzativa.

Modalità organizzativa che, ogni volta che sia possibile, vale la pena provare ad applicare.

«Già, lo smart working… una bella fregatura. Ora mi tocca lavorare anche da casa, a qualsiasi ora del giorno e della notte, e pure in vacanza!». Ma no, non è così. La legge sul lavoro agile, quella citata prima, è molto chiara: le vacanze sono vacanze, i permessi sono permessi, e le ore da lavorare secondo contratto, sempre quelle sono: solo si possono spalmare in modo diverso lungo la giornata.

Resta un’ultima, possibile e profonda obiezione allo smart working. Quella che chi – tanto perché rimane in un ufficio vuoto, quanto perché al lavoro da casa o in altra località amena – si chieda

Dove sono tutti?

La socialità, questa terribile malattia.

Bene, il sesto episodio di #NonCeLaPossoFare finisce qui. Tra gli argomenti che toccheremo nei prossimi episodi, ci sono l’impossibilità di essere almeno un po’ ordinati; l’uso sconsiderato, sul lavoro, delle metafore; l’eterna, devastante, divisione concettuale tra leader e capo e, prima o poi, il concetto di felicità sul lavoro.

Siccome il prossimo lunedì cade di 24 dicembre, e quello ancora dopo, il 31 dicembre capace che ci prendiamo una pausa. O forse no. Tanto siamo in regime di smart working? Vabè, dai, almeno un episodio con gli auguri di buone feste e buon anno cerchiamo di farlo.

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Cose nostre da leggere e ascoltare, sempre sullo smartworking

Qualcuno ha detto smartworking? 27 agosto 2018

Il balconcino. Sopravvivere allo smartworking, 27 agosto 2018

 

 

 

 

 

 

 

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